Silicon Valley Dojo
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Una splendida chiacchierata con Marco Palladino, co-founder della unicorn Kong
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Una splendida chiacchierata con Marco Palladino, co-founder della unicorn Kong

Questo è uno dei pochi articoli del Silicon Valley Dojo che dovete leggere o ascoltare per intero. Promettiamo che ne vale DAVVERO la pena.
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È difficile spiegare in poche righe quanto è stato bello e illuminante parlare con Marco.
Se c’è un articolo del Dojo che è imprescindibile è questo: dovete leggerlo (o ascoltarlo) e, soprattutto, guardare il video perché c’è tutto quello che cerchiamo di raccontarvi in queste “pagine”.

Spesso ci chiedete “Come possiamo ringraziarvi per il lavoro che fate con il Dojo?”

Un modo c’è: condividete questo articolo con più persone possibili, non ve lo chiediamo spesso, ma questo davvero è un post speciale:

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Marco Palladino è CTO e co-founder di Kong (inizialmente Mashape), unicorno fondato da italiani in Silicon Valley, che a febbraio 2021 ha chiuso un round da $100M portando la sua valutazione a 1.4 miliardi di dollari, con investitori importantissimi come Tiger Global, Andreessen Horowitz, CRV e Index Ventures.

(Full disclosure: Massimo è stato uno dei primi angel investor in Mashape, quando Marco e Augusto avevano 20 anni e avevamo appena iniziato la loro avventura in Silicon Valley.)

Abbiamo fatto una lunga chiacchierata con Marco, parlando un po’ di tutto: della sua esperienza a ventenne a San Francisco senza un posto dove dormire, delle difficoltà nelle prime raccolte, fino ai successi di oggi e alla vita da imprenditore (ma lui dice “per quanto ci riguarda noi siamo ancora al primo giorno della storia di Kong”).

Qui sotto - as usual - video della chiacchierata (47 minuti in italiano) e testo (per chi preferisce leggere). All’inizio del post invece trovate il file audio per gli appassionati dei podcast (come Irene).

Vi lasciamo anche qualche frase che ha detto Marco durante l’intervista, per ingolosirvi ad ascoltarla tutta:

  • Avevamo sempre voluto creare un'impresa che sarebbe diventata pubblica un giorno, che avrebbe avuto migliaia di dipendenti un giorno, che avrebbe cambiato il mondo.

  • I nostri vent'anni sono stati un sacrificio, non abbiamo avuto vent’anni come ce li hanno gli altri: abbiamo dormito sulle panchine, dormito a casa di altri, cercando di fare impresa, cercando di sistemare i visti.

  • Siamo delle teste dure, a un certo punto ci siamo convinti che non potevamo più tornare in Italia, come se qualcuno avesse distrutto l'aeroporto.

  • Noi abbiamo degli ottimi rapporti in Italia, tanti amici, è stato molto faticoso per noi non poter costruire questa impresa in Italia.

  • Marc Andreessen disse che “il software mangia il mondo”, ma l'open source mangerà il software!

  • Ho lanciato un prodotto quando mio figlio stava nascendo, e prima che il figlio nascesse ero in una Zoom call che stavo facendo partire la release del prodotto.

  • Nel momento in cui vieni qua, non soltanto devi fare un prodotto, ma devi anche pensare a come mangiare.

  • Quello che noi vogliamo comunicare ai nostri dipendenti è che va bene celebrare i successi, va bene crescere, ma per quanto mi riguarda, per quanto riguarda Augusto, siamo nella fase iniziale del nostro percorso imprenditoriale.

  • Io e Augusto ormai non siamo più co-fondatori, praticamente siamo fratelli. Siamo fratelli da mamme diverse.

  • Sono arrivato alla conclusione seguente: l'avere l'indipendenza economica non è tutto, il non avere l'indipendenza economica è tutto.

E poi la perla:

A me molti dicono “ma tu come sei andato a San Francisco, sicuramente avevi conoscenze, amici, avevi un network”: io e Augusto non avevamo niente, io per venire negli Stati Uniti sono andato a Malpensa.

Enjoy!

Se volete approfondire i temi legati al team di cui abbiamo un po’ chiacchierato anche nell’intervista, ricordatevi che sono aperte le iscrizioni per il prossimo incontro delle Silicon Valley Dojo Series, che si terrà il 27 ottobre e sarà intitolato “Identikit del founding team che un VC cerca”.


Massimo: “Vorremmo usare questo tempo per raccontare la tua esperienza da un lato e l’avventura di Kong, in un modo magari un po’ diverso rispetto a tante interviste che già avete rilasciato.
Partiamo da chi sei, quanti anni hai e cosa fai.

Marco: “Sono Marco Palladino, ho 32 anni, e sono il CTO di Kong.”

Massimo: “Cosa fa Kong?

Marco: “Kong crea sotftware di connettività, che permette agli sviluppatori, alle aziende di modernizzare e creare nuove applicazioni. Noi viviamo in un mondo che è connesso, sempre di più, e queste connessioni devono essere create, messe in sicurezza, amministrate, e Kong crea la tecnologia che permette agli sviluppatori e alle organizzazioni di avere successo nel generare questo tipo di connessioni.”

Massimo: “Si parla sempre di Kong, e di Mashape prima, ma proviamo a fare un passo indietro: com’era Marco prima di Mashape? Quando hai iniziato a programmare? Com’è iniziata questa cosa per te?”

Marco: “Ho iniziato a programmare quando avevo 13 anni, andavo alle scuole medie. Io sono sempre stato uno che era molto curioso di capire come funzionassero le cose, quindi la curiosità è stato il più grande driver, penso, che mi ha portato a domandarmi “ma come vengono fatte queste applicazioni sul computer? Andiamo un po’ a vedere dentro come funzionano e come si fanno”.

Massimo: “Ma l’hai fatto da solo allora, per forza, perché alle medie non ti insegnano a programmare.” 

Marco: “No, avevo 12-13 anni e mi ricordo che chiesi a papà 50mila lire per andare a comprare il libro per imparare a fare Visual Basic, che era un linguaggio molto accessibile. All’epoca con Visual Basic creavi applicazioni facendo drag-and-drop dei pulsanti, delle finestre, eccetera”

Massimo: “Sì, l’ho usato per almeno 6 anni, tanti anni fa! Quindi, sei partito da Visual Basic, ma io quando ti ho incontrato a San Francisco programmavi in Java.

Marco: “Sì, Visual Basic è stato il punto di partenza. Poi da lì a un certo punto mi ero anche appassionato alla programmazione di microchip elettronici, quindi niente a che vedere con il software, quello tradizionale. Poi sono tornato indietro e ho iniziato a imparare il Java, il Ruby, il Python, eccetera.”

Irene: “Ti faccio una domanda io sullo spostamento qua. Tu hai detto che hai imparato a programmare a 13 anni, e dopo 6-7 anni ti sei sposato qua in Silicon Valley e hai iniziato questa avventura. Io mi sono spostata più avanti, avevo 27 anni, quindi era completamente diversa la situazione. Però ho due domande: questo spostamento come è stato dal punto di vista pratico? Cioè: un ragazzo di 19 anni che a un certo punto, insieme ai suoi due co-founder, dice “noi andiamo” - cosa avete fatto? Avere incorporato in Italia? Avete risparmiato? Oppure avete deciso di provare tre mesi? Come era proprio il “piano di attacco”? 
La seconda domanda è su un aspetto sempre un po’ poco considerato, che invece che per me è stata una bella fetta della mia esperienza: il lato personale. C'è sempre lo storytelling del “vado, faccio l'imprenditore, parto per la Silicon Valley!” però dietro c'è una persona che ha una famiglia, che ha degli amici, che si sradica, che poi arriva di qua e all'inizio magari è carico a bomba ma poi si trova che è a nove ore di fuso, che la sua famiglia va letto quando lui comincia a lavorare, insomma tutto un lato personale che è sempre poco considerato anche dalla persona che fa la scelta (cioè, almeno io non ci avevo pensato bene-benissimo subito).
Quindi vorrei chiederti di questi due lati di questa esperienza, soprattutto all'inizio.”

Marco: “Dunque: io e Augusto eravamo sognatori, noi abbiamo sempre voluto fare un’azienda negli Stati Uniti perché eravamo consapevoli del fatto che negli Stati Uniti avremmo avuto - anche se marginalmente - una chance più grande di poter poi un giorno costruire una grande impresa, un'impresa che crea valore nel lungo termine. Quindi noi abbiamo mai fatto un'impresa con l'idea di dire “Facciamo due spicci in un paio d’anni”, no, noi avevamo sempre voluto creare un'impresa che sarebbe diventata pubblica un giorno, che avrebbe avuto migliaia di dipendenti un giorno, che avrebbe cambiato il mondo. E in Italia sapevamo che questo non era possibile farlo, soprattutto nel mondo tecnologico. Quindi la nostra idea era quella di prendere dei finanziamenti in Italia, ma poi andare negli Stati Uniti. I finanziamenti in Italia, per un motivo o per un altro, non li abbiamo presi, allora siamo andati direttamente poi negli Stati Uniti. 
Ma l'incorporazione è sempre stata americana, anche quando eravamo in Italia, perché l'idea era sempre di andare negli Stati Uniti.”

Massimo: “Quindi avete incorporato online?”

Marco: “Noi abbiamo incorporato online con 500 dollari, Augusto lo fece da Roma!”

Irene: “Nel 2010? Che hanno era, 2009?”

Marco: “2009!” 

Massimo: “Certo, perché nel 2010 eravate già di là! E i soldi? Dovevate prendere un aereo, mangiare, dormire!”

Marco: “Di soldi non ce n'erano tanti, però io all'epoca sai, avevo iniziato a programmare a 13 anni, e poi piano piano, me la sono cavata un pochino, facevo un po di consulenza, e avevo due spicci da parte. Augusto aveva due spicci da parte perché investiva in Borsa, aveva azzeccato 2-3 stocks, e quindi non avevamo tanto. Io mi ricordo che sono venuto negli Stati Uniti con soldi per stare tre mesi, perché massimo è tre mesi il visto turistico, ma avevo sostanzialmente meno di 2.000 euro.”

Massimo: “È un buon piano!”

Marco: “Non avevamo neanche un posto per dormire per tre mesi, noi siamo venuti che avevamo soltanto un motel, economico, per una settimana: eravamo in 3 in una stanza. Immagina la puzza che c’era in quella stanza! 
Eravamo in tre, in una stanza, soltanto per una settimana, e sai quando hai 20 anni fai di tutto, noi non eravamo comodi all'epoca, a 21 anni sai, uno può anche saltare una cena - e quante ne abbiamo saltate! Sai come si fa saltare una cena? Bevi tanta acqua prima di andare a dormire, l'acqua ti riempie lo stomaco giusto giusto finché non ti addormenti, poi quando ti addormenti tipicamente, se poi sei anche stanco, duri tutta la notte e ti svegli la mattina dopo. Infatti io persi 20 chili venendo qua negli Stati Uniti.
Insomma, cercavamo qualcuno che ci aiutasse, erai anche una questione di creare un network negli Stati Uniti da outsider, da immigrati, non conoscevamo nessuno qui. Una volta siamo stati ospitati da Travis Kalanick, che poi diventò l'amministratore delegato di Uber, dai ragazzi di Airbnb…”

Irene: “E lato personale, questa questa scelta di spostarvi come l'avete vissuta?

Marco: “Ma sai, venire negli Stati Uniti in un paese che non è il tuo, con una lingua che non è la tua: cioè io sono dieci anni che mi sveglio e le prime parole che dico sono in una lingua che non è la mia, in un paese che non è il mio. È molto difficile. Noi siamo venuti qui con l'idea di voler fare impresa, e saremmo andati anche nel deserto del Sahara se la Silicon Valley fosse stata nel deserto del Sahara. I nostri vent'anni sono stati un sacrificio, non abbiamo avuto vent’anni come ce li hanno gli altri, è stato molto molto particolare. Abbiamo dormito sulle panchine, dormito a casa di altri, cercando di fare impresa, cercando di sistemare i visti, ogni volta che atterravamo negli Stati Uniti ci mandavano in secondary room. Poi quando arrivi qua, non hai soldi, non c'è uno stipendio, noi non abbiamo avuto uno stipendio per i primi tre/quattro anni, finché siamo riusciti a prendere a prendere i primi finanziatori - ma neanche con l’angel round, con il seed round ci siamo dati poi lo stipendio, perché l’angel round non era abbastanza per darci uno stipendio. Quindi insomma, eravamo in trincea, e quando sei in trincea pensi soltanto a vincere la guerra, ed eravamo così noi.”

Massimo: “Tanti dicono - Jobs incluso - che la differenza tra chi riesce a fare e chi non riesce a fare è la perseveranza, che sicuramente a voi non è una qualità che è mancata. Tra tutte le cose che avete vissuto, e ne avete vissute tante - hai citato le panchine, hai citato dormire dove capita - se dovessi citarne una o due, quali sono state le cose più difficili che hai dovuto fare fino ad oggi per arrivare dove ti trovi?”

Marco: “Allora, una persona razionale probabilmente avrebbe lasciato: perché poi in Italia comunque noi avevamo le nostre famiglie, io comunque potevo decidere di continuare a fare il consulente, Augusto poteva decidere di proseguire il suo percorso di studi. Siamo delle teste dure, a un certo punto ci siamo convinti che non potevamo più tornare in Italia, come se qualcuno avesse distrutto l'areoporto, e ci siamo convinti nella nostra testa che quella non era più un’opzione. E lì è stato forse un pivotal point, perché ti precludi la possibilità di tornare, e te ne convinci, che non puoi più tornare, per un motivo o per un altro: perché non volevamo tornare da falliti, non volevo tornare e incontrare mio padre che mi veniva a prendere all’aeroporto e mi diceva “com'è andata - non ce l’ho fatta”, non volevo tornare con l’economy ticket nel sedile quello di mezzo in fondo all'aereo. Quell’idea di tornare e di guardare dal finestrino 15 ore con l'idea di aver fallito, quell'idea era un'idea che noi non volevamo accettare. E ci siamo convinti di quell'idea, ed er avamo disposti a fare la fame pur di non tornare.
Lì è stato un pivotal point mentale che è stato molto importante, e la cosa più importante che è successa a me e ad Augusto nello stesso momento, cioè ci eravamo convinti non voler tornare. Quindi quello è stato il primo pivotal point, perché una persona normale a un certo punto sarebbe tornata.”

Massimo: “Ma sicuramente! Voglio dire, prima di dormire sulle panchine di Dolores Park, ce ne vuole, non è proprio una scherzo. La gente magari non sa cos’è Dolores Park: parco bellissimo, ma di notte non è proprio bellissimo.”

Marco: “No, ma poi San Francisco è piena di senzatetto, infatti ho detto ad Augusto: se non ce la dovessimo fare, rimaniamo qua, siamo già nel posto giusto! 
E non è perché non avessimo dove tornare, noi abbiamo degli ottimi rapporti in Italia, tanti amici, è stato molto faticoso per noi non poter costruire questa impresa in Italia. Io praticamente la mia famiglia, dai 20 ai 32 anni, l'ho vista una volta all'anno. Quindi è stato molto faticoso, e avevamo tutto in Italia e ci siamo convinti che quello non bastava, dovevamo fare un'impresa, perché quello era il nostro percorso umano, era quello che ci avrebbe definito. E all'epoca non non sapevamo se avremmo fatta o no.
Il secondo pivotal moment molto drammatico - ma sai che ce ne sono stati proprio tanti? - il più drammatico probabilmente è stato quando avevamo sostanzialmente tre settimane negli Stati Uniti con il visto prima di dover ritornare ma non avevamo ancora raccolto i soldi. E me lo ricordo come se fosse ieri: eravamo io e Augusto che andavamo da San Francisco a questo evento in a Stanford, eravamo sul Caltrain, che è il treno che ti porta a Stanford (non mi ricordo neanche se avevamo pagato il biglietto!), e mi ricordo che guardavo Augusto, Augusto guardava me e ci siamo detti “Guarda che qui tra tre settimane è finita, non ce ne saranno tanti di questi eventi nei quali possiamo incontrare un angel l'investor che ci può dare i primi soldi”. E noi sostanzialmente siamo arrivati a Stanford dopo aver fatto questo discorso, come se fossimo sbarcati al D Day! Siamo entrati a Stanford, abbiamo visto che c'erano centinaia di persone - angel investor, giornalisti, imprenditori - a un certo punto la persona che stava all'ingresso, che faceva la reception, se ne andò al bagno, noi rubammo tutto il plico dei partecipanti quindi a un certo punto l'evento stesso era rimasto senza l’elenco dei partecipanti.
E poi lì siamo tornati a casa con 15 mila email e nomi e abbiamo iniziato a mandare email a tutti dicendo che ci avevano incontrato all'evento, anche se era gente che non avevamo mai conosciuto a quell’evento. Così però siamo riusciti a trovare i nostri primi investitori!
Insomma, siamo dovuti arrivare all'apice dello stress, della paura, della rabbia, per noi poter fare cose che probabilmente non avremmo fatto altrimenti, borderline sulla legalità.” 

Massimo: “È un percorso che pochissimi hanno il coraggio di fare, infatti abbiamo pochissimi italiani in quelle zone, che fanno cose di questo genere. Adesso salterei a un altro argomento: io sono un fanatico dei software engineers, sono arrivato a San Francisco perché alla fine lì era il posto dove uno che faceva il tecnologo guidava la sua azienda, in Italia non te la lasciavano fare sta roba, c’era sempre quello che non sapeva niente che doveva dire cosa dovevi fare. E questa cosa mi ha sempre dato fastidio, quindi sono sempre stato convinto che in Italia forse dovremmo fare un po’ più software di base, software serio, e un po’ meno ecommerce, un po’ meno app, cose cose di questo genere. Tanto è vero che anche sull'open source noi abbiamo delle buone referenze ormai: abbiamo Kong, abbiamo Sysdig, abbiamo Redis, anche un pezzettino di Wireshark grazie a Loris ha dell’imprinting italiano. 
Tu - all'interno di Kong vivi un settore dall'A alla Z - cos'è che vedi che potrebbe avere un’espansione enorme in termini di tecnologia nei prossimi anni? Che consigli dai alla gente, ai software engineers italiani che vogliono buttarsi a fare qualcosa che può avere un'esplosione mondiale?”

Marco: “Allora io sono molto all’interno del software tecnologico infrastrutturale. Una delle cose che è molto chiara è che le nostre applicazioni stanno diventando sempre più complesse, ma devono diventare complesse in modo tale che possano scalare. Quindi molti più servizi, molti più team allocati per i microservices, eccetera eccetera. Quando il numero di applicazioni e servizi che gira nei nostri sistemi diventa così grande, è importante iniziare ad automatizzare alcune delle operazioni che altrimenti avremmo fatto in modo manuale: e quindi l’automation dei servizi, il machine learning, l’artificial intelligence, applicate in ogni campo, ma anche nel campo nel quale operiamo noi, sono cose che sono inevitabili. Perché l'aumentare di moving parts, l'aumentare della complessità dei nostri servizi, rende quello che prima si poteva fare con processi più manuali, li rende inefficaci. Quindi tutto quello che ha a che fare con l'automation secondo me è un grande filone. 
Poi c'è anche un altro filone consumer su VR/AR per creare esperienze entusiasmanti virtuali, quindi ci sono sicuramente molte iniziative. Quelle su cui però mi piace molto focalizzarmi sono quelle che distruggono lo status quo. Noi a volte facciamo cose non perché abbiano un senso, le facciamo perché siamo stati educati nel farle in un certo modo, e ogni tanto c'è un imprenditore che decide:

  • “ma perché per prendere un taxi devo andare in strada ad aspettare venti minuti con la mano in mezzo alla strada per fermarne uno, perché non posso schiacciare un pulsante e mi arriva una macchina?” → Uber

  • “ma perché se devo andare e viaggiare in un altro paese devo per forza andare in un albergo? Se tu apri la finestra di casa tua stasera ogni finestra illuminata è una potenziale camera d'albergo” →  Airbnb 

Ogni volta che qualcuno decide di prendere lo status quo e turn it upside down, prenderlo e scombussolarlo,  quelle sono le iniziative che poi possono creare un'opportunità, da punto di vista del prodotto.”

Massimo: “Quindi mi raccomando: meno ecommerce e fate qualcosa di serio. 
Voi siete siete partiti con questa grande esplosione con un prodotto open source, che oggi ha più di 30.000 stars di Github - recentemente raggiunte, credo in agosto se non sbaglio. 
Quando uno pensa all’open source e non è del settore dice “sì va bene, lo metto in rete, me lo vedono tutti, me lo copiano, cosa succede?”. Hai mai avuto timore che altri potessero trarre più vantaggio di voi dal vostro codice sorgente?

Marco: “L’open source può essere visto come in modo negativo dal punto di vista business, o può anche essere visto come un'opportunità di avere più distribuzione di un software sul quale poi puoi vendere servizi aggiuntivi. Senza l'open source per vendere servizi aggiuntivi un’azienda dovrebbe spendere molti più soldi in marketing per poter poi farsi notare. Con l'open source, se l'open source è un prodotto buono, quella distribuzione iniziale può essere globale dal giorno 1, senza dover investire così tanti soldi nel marketing. Quindi in realtà può essere anche un modo più efficiente per poi poter vendere servizi sul prodotto open source.
E infatti lo stiamo vedendo: l'open source dieci anni fa era visto come dicevi tu, l'unico sul caso di successo nell'open source era Red Hat, che era l'unica azienda quotata in borsa all’epoca che era un'azienda open source. Oggi Red Hat non è più l'unica, abbiamo Elastic, abbiamo Confluent, ci sono grandi aziende basate sull’open source come HashiCorp, Kong è appunto un'altra che si basa sull'open source. L’open source è diventato un punto di partenza fondamentale per il software, anche perché si è ribaltata la catena di comando che decide quale software va in production, non è più una decisione dall'alto, è una decisione che viene fatta dallo sviluppatore che usufruisce di questi ecosistemi open source per poter scegliere quale software vuole usare per metterlo in production. Quindi questa adoption che parte dal basso non più dall'alto è diventata una grande spinta per il software open source. È chiaro che come ogni business, anche il software anche il business open source ha sfide, nel senso che poi bisogna effettivamente poter creare questo valore aggiunto, che è soltanto entreprise, perché se questo valore aggiunto non viene creato allora, sì, praticamente hai fatto un open source e lo usano tutti, ma non stai facendo leva su quella adoption per poter poi vendere il tuo valore aggiunto, perché non l'hai creato.
Quindi deve essere fatto in modo giusto, altrimenti sì, hai ragione tu, non è più un’opportunità, mentre in realtà è una grande opportunità, se viene fatto bene.”

Massimo: “Io sono assolutamente convinto come te che oggi l’open source sia forse IL modo migliore per entrare nell’enterprise, perché se no l’approccio top down non funziona più, ha un sacco di costi upfront e poi non ha garanzie, perché poi se la gente non lo usa, non lo mette in produzione quella roba è un fallimento per l'azienda e per chi lo usa. Quindi come lo difendi?  Faccio un prodotto open source, ma come si difende un prodotto open source?

Marco: “Innanzitutto se noi guardiamo ai prodotti open source nel mondo - Elastic, Kafka, ma anche Kong - il 99% della road map e del controllo del prodotto è comunque fatta dall'azienda che sponsorizza il prodotto: quindi Confluent nel caso di Kafka, Kong nel caso di Kong, Elastic nel caso di Elastic source eccetera eccetera. Quindi quel controllo sulla road map - su che features vengono create, quali features vengono poi promosse nella release - quel controllo ha un valore immenso, perché a quel punto poi l'azienda può decidere quali features rimangono open source e quali features vengono create come valore aggiunto nella versione enterprise. 
Soprattutto open source però vuol dire poter creare del valore che viene utilizzato da altri in modo gratuito, quindi c'è una componente di commoditization sul mercato perché tu vuoi catturare quella adozione iniziale mettendo free qualcosa che prima era a pagamento, ma quello poi ti dà un vantaggio perché tu poi hai il controllo della roadmap per poi creare valore aggiunto su qualcosa sul quale prima di questo open source non avevi nessun controllo. 
Quindi in realtà l'open source aumenta il controllo. Il fatto che poi adesso tutti i software - il movimento cloud, AWS, il software SaaS - tutto quello che sta succedendo in questo momento nel mercato rinforza poi questo movimento bottom up degli sviluppatori che utilizzano un prodotto e poi lo mettono in production. Quindi l'open source è anche poi un'estensione di quello che noi già abbiamo visto nel mondo cloud e nel mondo SaaS dal punto di vista di adoption che gli sviluppatori fanno all'interno di un'enterprise. 
Non avere un open source vuol dire che questa adoption iniziale deve avere un sacco di marketing, deve avere un sacco di account execs, di venditori che cercano di entrare nelle aziende, un sacco di outbound che è poco efficace, eccetera eccetera eccetera. Quindi l'open source è un’opportunità, non è un qualcosa dal quale scappare.”

Massimo: “Assolutamente, la mia piccola fortuna arriva dall’aver investito in open source, quindi sono testimone di questa cosa.” 

Marco: “Ma infatti guarda: Marc Andreessen disse che “il software mangia il mondo”, ma l'open source mangerà il software. Quindi se c'è un software oggi che è closed source, e non ha una motion che è open source, prima o poi, se c'è un'opportunità, ci sarà una versione open source di quel software, e quella versione open source perché più facile da usare e più facile da contribuire mangerà fette di mercato di ogni software che è closed source.”

Irene: “Prima Marco ci hai detto una cosa che ripetete spesso nelle interviste sia tu che Augusto, che per raggiungere questi risultati di una vita è stato necessario sacrificare tantissimo, se non tutto per certi momenti e certi periodi della vostra vita. C'è stato però un momento durante questi ultimi dieci anni in cui avete capito che potevate iniziare avere tempo anche per fare altre cose? C'è stato un cambio dal “sacrificare tutto, all in, concentrati solo su quello”  al ricominciare a respirare e a fare anche altro? Se sì - non lo so se c’è ancora stato - quando e in che fase eravate con Mashape o Kong? Anche relazioni personali magari, che all'inizio non riesci ad avere spazio e poi cominci piano piano a dar tempo anche a quelle”

Marco: “Tu sei descrivendo quello che io considero la pensione! Finché si fa Kong, finché si fa un’impresa non c'è molto spazio. Chiaramente a un certo punto ti dai uno stipendio, se vuoi andare al ristorante, vai al ristorante. Ti puoi permettere di fare cose che magari prima non facevi, ma la mente è sempre lì, è sempre sul business. Perché vedi, poi il business cresce, ma il tipo di business che vogliamo fare noi non è un lifestyle business. Cioè, molti imprenditori dicono “ma sai che c'è, sono arrivato a un certo punto non mi interessa raddoppiare la mia crescita anno dopo anno, cresco dell 20%, del 10% per i prossimi dieci anni e mi basta così”.
Mentre col tipo di percorso che io e Augusto stiamo facendo con Kong noi vogliamo raddoppiare anno dopo anno, e quando devi raddoppiare anno dopo anno, non arrivi mai a un punto nel quale dici “ah, faccio una vacanza!”, perché altrimenti poi non raddoppi. Quindi se fai 10 milioni → l'anno prossimo ne devi far 20, ne fai 20 → ne devi far 40, ne fai 40 → ne devi far 80, ne fai 80 → ne devi far 160. E ti dirò di più: più raddoppi e più in realtà devi lavorare di più, perché raddoppiare su grandi numeri diventa sempre più complicato. Andare da 1 milione a 2 milioni è più facile che andare da 100 a 200 milioni.
E quindi in realtà è la cosa inversa, lavori di più, io non penso di aver lavorato molto meno: per dirti, ho lanciato un prodotto quando mio figlio stava nascendo, e prima che il figlio nascesse ero in una Zoom call che stavo facendo partire la release del prodotto, la 1.0. 
Quindi siamo proprio super focalizzati in quello che facciamo, ma è una scelta personale, non durerà per sempre. Io so che a un certo punto dovrò andare in pensione, e spero che a quel punto, quando andrò in pensione - che può essere tra dieci anni, tra cinque anni, tra vent'anni o magari mai - però se vado in pensione, e ho l'opportunità di aver fatto quello che volevo fare con Kong, guarderò indietro al mio percorso con Kong sapendo che ho dato il massimo.”

Massimo: “Quindi, da questo punto di vista, prova dirci: cosa fai da quando ti alzi al mattino fino a quando spegni la luce la sera? Com’è la tua giornata tipo, come funziona?”

Marco: “Stamattina mi sono svegliato alle 6, alle 6.30 avevo già il primo meeting e andrà avanti fino alle 19 di stasera, e poi dalle 19 fino alle 22, 23 ho tempo per chiudere i loop senza fare meeting, praticamente dalle sette di sera in poi inizio a lavorare.”

Massimo: “Beh voglio dire la dice lunga, tu hai famiglia per cui hai anche altre cose, teoricamente, che dovrebbero avere uno spazio, quindi trovare lo spazio per tutto non è una cosa assolutamente facile, però bisogna riuscire a farlo.”

Marco: “Ecco, da imprenditore la nota positiva è che voglio avere un'ora di tempo da dedicare, so che smetto di fare quello che voglio fare, dedico un’ora alla famiglia, che può essere dalle tre del pomeriggio alle quattro, alle cinque, alle sei, decido io quando, e poi quell’ora lì, se ho del lavoro da fare, la posso comunque recuperare dopo, o mi sveglio un'ora prima la mattina. Quindi in realtà sicuramente lavoro tanto, ma se devo essere lì con la famiglia per avere un family time, ed è importante che lo faccia, riesco sempre a trovare il tempo di farlo, sapendo che poi possono gestirmi la schedule come voglio io.

Massimo: “Noi cerchiamo, come ti dicevo all'inizio, di spiegare agli italiani come si crea un unicorno. E in qualche modo lo facciamo convinti che, se fai software, San Francisco è il posto dove devi essere. Quindi se sei da qualsiasi altra parte, forse, ti stai dando delle chance in meno. Quindi supponiamo che ci sia il software engineer italiano che sogna di fare la sua prossima cosa a San Francisco, tu che consigli di puoi dare? Come inizi? Inizi in Italia? Ti sposti subito?”

Marco: “Parto con questa idea iniziale: uno deve fare quello che ha senso dal punto di vista business. I confini nazionali sono artificiali, è un'idea inventata, non esistono in natura. Quindi uno deve fare quello che sa può fare per far crescere il business, quindi quando noi siamo venuti negli Stati Uniti non abbiamo pensato molto “lasciamo il nostro paese, andiamo in un altro paese” no, noi siamo venuti nel posto dove avevamo la maggior possibilità di fare funzionre questa cosa. Se la Silicon Valley fosse stata a Catanzaro saremmo andati a Catanzaro. Quindi, quello è il punto di partenza, i confini e tutto il romanticismo che viene dato a queste linee sulla mappa, sono tutti artificiali, non esistono in natura, quindi partiamo da questo presupposto. Un imprenditore deve fare quello che ha senso. Ha senso forse nel momento iniziale creare un prototipo in Italia, perché nel momento in cui si viene negli Stati Uniti il tempo e più limitato. In Italia magari c’è una rete di supporto che l'imprenditore può usare - amici, famiglia - per vivere, dormire e mangiare mentre crea il prototipo.
Nel momento in cui viene negli Stati Uniti, non soltanto deve lavorare nel migliorare il prototipo, nel prendere utenti, nel crescere il business, ma gli viene anche a mancare quella rete di supporto. Prima o poi dovrà farlo questo passo nel venire nel posto giusto secondo me, è importante farlo, però insomma, nel momento in cui vieni qua, non soltanto devi fare un prodotto, ma devi anche pensare a come mangiare. Quindi devi venire qua quando sai che sei pronto per venire qua, però non bisogna neanche aspettare tanto. A me molti dicono “ma tu come sei andato a San Francisco, sicuramente avevi conoscenze, amici, avevi un network”: io e Augusto non avevamo niente, io per venire negli Stati Uniti sono andato a Malpensa.
Noi siamo atterrati, ci siamo guardati in faccia “e mo’?” “e mo’ andiamo a trovare un posto dove andare!”. Non avevamo niente di pianificato, niente di preparato, per andare negli Stati Uniti siamo andati a Malpensa.”

Irene: “Ti vorrei fare una domanda sulla cultura aziendale. Già in generale è difficile da creare in un’azienda standard, per voi comunque che venite da una cultura diversa da questa, che avete sempre detto di voler fare un’azienda americana, come è stato creare una cultura aziendale qui e quali sono le caratteristiche fondamentali della vostra cultura aziendale oggi?

Marco: “L'azienda è un'azienda americana, noi abbiamo la maggior parte dei dipendenti qui. Io e Augusto abbiamo dovuto fare un cambiamento culturale, siamo noi che siamo diventati americani per poter fare l'azienda negli Stati Uniti. Quindi il cambiamento è stato in me ed Augusto, i cofondatori, inizialmente. Poi dal punto di vista aziendale sai, una startup è un posto dove si lavora tanto, ma potenzialmente c'è un reward che è molto più alto. Quello che noi vogliamo comunicare ai nostri dipendenti è che va bene celebrare i successi, va bene crescere, ma per quanto mi riguarda, per quanto riguarda Augusto, siamo nella fase iniziale del nostro percorso imprenditoriale. Noi non vogliamo creare un’azienda da un miliardo, da due miliardi, noi vogliamo creare un’azienda da duecento miliardi, perché pensiamo che abbiamo l'opportunità di poter rivoluzionare il mondo della connettività software. Quindi per quanto ci riguarda noi siamo ancora al primo giorno della storia di Kong
Creare una startup non è una linea dritta, è una linea che va a zig zag, e ci saranno momenti bui dai quali noi impareremo e cresceremo più forti, quello che loro sanno è che io e Augusto e la leadership dell'azienda non molleremo mai, perché è la nostra avventura, è il nostro percorso. Noi siamo venuti qua abbiamo fatto tutto quello che abbiamo fatto per raggiungere un obiettivo e quell'obiettivo non è un'azienda da 10 miliardi, non è un'azienda da 20 miliardi, è un'azienda da 200 miliardi, e quindi non molleremo mai finché non raggiungeremo quell'obiettivo.
Creare questo senso, questa mission, all'interno dell'azienda è molto importante perché poi assumi persone che la pensano come te e che credono in questa visione, credono in questa idea e la vogliono realizzare.”

Massimo: “Certo! Io non ho mai più conosciuto - e ne ho viste tante, ne vedo circa un migliaio all'anno - un'azienda con due fondatori coesi e affiatati come voi. Italiani o non italiani, non li ho mai più incontrati. Come avete fatto a gestire il vostro rapporto in tutti questi anni? Non avete mai avuto momenti in cui siete stati molto vicini alla rottura?”

Marco: “Rottura personale no. Abbiamo avuto momenti di disaccordo dal punto di vista business. Ma io e Augusto ormai non siamo più cofondatori, praticamente siamo fratelli. Siamo fratelli da mamme diverse. Quando hai tutta questa esperienza di vita insieme, io Augusto lo conosco da quando avevamo 17 anni, prima di fare Mashape, di andare negli Stati Uniti, abbiamo fatto un'altra piccola azienda a Milano. Quindi Mashape era il nostro secondo tentativo e siamo venuti negli Stati Uniti per poterlo fare. 
Ormai siamo diventati fratelli, non è più una questione di co-founder. La cosa che ha funzionato molto tra me e Augusto, che è molto difficile da trovare, è il darsi coraggio a vicenda, anche in modo abbastanza duro. Molte persone magari si possono offendere se ricevono un commento tipo “Ma come, Augusto, un lavoro hai, ma fallo bene, cavolo!”, mentre noi ci carichiamo a vicenda. Ci miglioriamo a vicenda, ci carichiamo a vicenda in modo molto complementare.
Questo tipo di chemistry, di alchimia, è molto difficile da trovare tra le persone in generale, non soltanto tra cofondatori. Perché alla fine essere confondatori è sostanzialmente fare nurturing di un rapporto umano, e quindi un rapporto umano che si carica a vicenda, che si supporta a vicenda, è molto difficile da trovare in generale. Nel mondo a volte questa partnership si traduce in un buon lavoro professionale tra founders, in altre si traduce in un buon matrimonio, in altre altro ancora. Quindi sostanzialmente quello che ha reso me e Augusto buoni cofondatori è quello che rende ogni persona un buon partner con un'altra persona. Chiaramente io e Augusto non siamo spostati, siamo cofondatori di Kong, quindi quello che facciamo insieme è un’azienda, però dal punto di vista umano la base, il punto di partenza, è lo stesso, è quello di avere una understanding dall’altra persona: capire quando smettere, capire quando sollevarsi, eccetera eccetera. Questo nel nostro caso si è tradotto in un buon rapporto lavorativo.”

Massimo: “Ottimo! Poi sai, quando uno fa cose di questo genere, si butta nel settore startup, io sono estremamente convinto del fatto che non lo si faccia mai per i soldi. È perché stai inseguendo un sogno, stai inseguendo un obiettivo che più grande, enormemente più grande, di te. Poi è chiaro che il successo economico in qualche modo è una delle cartine di tornasole che - se tutto va bene - arriva, prima o poi qualcosa arriva, magari tanto, magari poco, però insomma riesci a camparci bene. Per te come è stato? Com'è il tuo rapporto con il denaro nella vita?

Marco: “Allora, questo è una topic al quale stavo proprio pensando recentemente. E sono arrivato alla conclusione seguente: l'avere l'indipendenza economica non è tutto, il non avere l'indipendenza economica è tutto. 
L'avere i soldi non è tutto, ma il non averceli è tutto, perché non pensare, non hai la libertà di poter sperimentare con niente se tutto ciò a cui pensi è pagare la bolletta e procurarti da mangiare. Quindi il non averli diventa tutto e ti soffoca in ogni altra iniziativa che tu puoi fare nella vita.
Arriva un punto però dove le tue necessità di base sono raggiunte, dove sai che puoi mangiare a colazione, pranzo e cena tutti i giorni, sai che puoi permetterti un affitto o comprarti una casa. Quando arrivi a quel punto lì, ogni reward economico al di sopra di questo è futile, non importa, alla fine quello che importa è il percorso umano, come spendi il tempo con gli altri, lavorare con le persone con cui ti piace lavorare. Alla fine bere un caffè su uno yacht o berlo al bar, quello che importa è con chi lo bevi il caffè
Anche con l’indipendenza economica, quando fai cose che magari non dovresti fare, tipo compri una macchina costosa, l’esperienza dura al massimo 30 giorni, dopo 30 giorni è finita l'esperienza.
Però la cosa difficile di questa esperienza è che si impara soltanto quando poi lo fai, e quindi se i soldi non ce li hai mai, pensi sempre a questo come una stella polare. Poi quando ce li hai finalmente lo capisci. Il problema è che per capirlo devi iniziare a fare queste stupidate, e poi lo capisci.
Dal punto di vista economico, quando io dico che voglio fare un’azienda da 200 miliardi, in realtà tradotto vuol dire che voglio creare un'azienda che crea un impatto nel mondo così grande che un giorno potrà essere valutata 200 miliardi sul mercato azionario. Non sono i 200 miliardi per sé che mi interessano, perché quando ne hai 1, ne hai 10, ne hai 20, ne hai 30 o ne hai 200, non ti cambia la vita.”

Massimo: “Sono assolutamente d'accordo, purtroppo queste cose le capisci soltanto a posteriori. Finché non hai avuto una macchina che corre veloce, non capisci che dopo un po’ non te ne frega della macchina che corre veloce. Ti faccio le ultime due domande, perchè siamo veramente agli sgoccioli. Vorrei parlare del rapporto che avete avuto con i vostri investitori. Questo rapporto può essere un rapporto buono, neutro, o anche molto brutto in tanti casi, perché è sempre qualcuno che ti entra in casa, che ti dice a volte cosa devi fare, cosa non devi fare, e tu hai un’azienda da mandare avanti. Qual è stato l'atteggiamento dei grossi investitori che vi hanno accompagnato durante tutto questo viaggio? Avete avuto pressioni, avete avuto aiuti? Che tipo di dinamica avete avuto con queste persone?”

Marco: “Noi siamo partiti da un punto di vista diverso. Noi non siamo venuti qua per prendere i soldi da qualsiasi investitore, noi volevamo prendere il finanziamento dagli investitori che volevamo noi, e abbiamo fatto di tutto per prenderli da loro. Quindi noi abbiamo scelto chi portarci nel nostro percorso business. E quello che noi pensavamo sarebbe stata una buona scelta, poi s'è rivelata essere una buona scelta effettivamente. Noi abbiamo degli investitori nel board di Kong che sono persone fantastiche dal punto di vista non soltanto professionale, ma anche personale. Ci incontriamo con loro, con le loro famiglie, per un barbecue  in modo spontaneo, quindi sono diventati sostanzialmente amici. È chiaro che c'è sempre un'aurea di professionalità, perché comunque quello che ci lega è il percorso professionale. Loro hanno investito in Kong e noi dobbiamo cercare di rendere Kong un'azienda di successo, ma sono persone con le quali, anche se non avessero investito in Kong, andrei comunque a cena, sono persone con cui è piacevole stare insieme. Noi abbiamo sempre voluto scegliere chi sarebbero stati i nostri investitori: infatti quando noi abbiamo fatto il seed, il Series A e il Series B, sulla lavagna abbiamo messo tutti gli investitori ai quali volevamo arrivare, che noi volevamo parte di Kong, e poi abbiamo cercato di capire chi erano tutte le conoscenze che avevamo per poterli poi contattare, per arrivare a quelli che noi volevamo. Quindi qual è il network che dobbiamo utilizzare per arrivare alle persone che noi vogliamo avere nel board.

Massimo: “Nomi e cognomi, non soltanto la firm?”

Marco: “Nomi e cognomi!”

Massimo: “Infatti voi avete sicuramente un parterre di investitori, come brand, veramente unico, fin dal giorno 1, fin da quando i primi VC sono entrati nel nostro board.”

Marco: “Non è successo per caso!”

Massimo: “No no, io lo so benissimo, voi eravate fissati, avevate veramente questa fissazione, non avevate niente in mano, ma voi volevate Index, potevate Charles River Ventures, volevate NEA all’inizio, Andreessen Horowitz.”

Marco: “L’unico investitore che veramente volevamo e non ce l’abbiamo fatta, e ancora oggi io e Augusto ne parliamo, ma magari arriveranno a un round successivo, è stato Sequoia. L'unico che veramente volevamo - anche gli altri li volevamo - ma l’unico che non ce l'abbiamo fatta, però forse arriveranno in un round successivo, chi lo sa.” 

Massimo: “Ultima domanda! Gli italiani in Silicon Valley non sono mai stati grandi tech entrepreneur, fino a 10-15 anni fa. C’era qualche caso ogni tanto, Federico Faggin, cose di questo genere, però in questo momento cominciano a esserci, nello stesso anno, due aziende fondate da italiani, Kong e Sysdig, che diventano unicorni. Il dato interessante secondo me è che ormai i venture capitalist di Silicon Valley cominciano ad associare anche nome italiani con la tecnologia e in particolare con certi tipi di tecnologie, in questo caso tecnologie molto di base. Credi che questo possa avere una qualche influenza nella percezione che i VC hanno dei fondatori italiani, che fino all’altro ieri eravamo come tutti gli altri, mentre adesso sappiamo fare delle cose specifiche?”

Marco: “Guarda, ti posso dire con certezza che a nessun investitore gliene frega niente da dove vieni se riesci a fare un prodotto e a dimostrare di creare valore in questo modo. Il fatto che ci sono più imprenditori italiani che riescono a dimostrare questo valore, nel luogo giusto, e nei posti giusti - perché Sysdig anche loro sono venuti qua - non ha niente a che fare con quello che i VC pensano degli italiani, ha a che fare con gli italiani che finalmente si buttano nel momento giusto, al posto giusto.
Ma dal punto di vista dell'investitore, all'investitore non gliene importa niente se sei italiano, sei indiano, sei cinese, o americano, quello che importa è quello tu fai, ed è quello ciò che loro guardano.”

Massimo: “Qualche anno fa, quando con Sysdig andammo a fare il primo round di investimento, nel lontano 2013, abbiamo incontrato George Zachary di CRV, e io mi ricordo che la persona che ci ha collegato a George Zachary, o forse lui stesso durante il meeting ci disse che ci aveva chiamati perché italiani & protocolli di rete/network communication gli suonava bene - all'epoca c'era ancora la nomea Cisco, probabilmente CRV ha fatto un sacco di soldi anche con gli spin-in di Cisco - perché comunque avevano avuto delle exit importanti. Secondo me è vero quello che dici, è vero che più siamo meglio è, più cose importanti facciamo più si spargerà la voce di questa cosa, più saremo presenti. Però è anche interessante provare a cavalcarla questa cosa: ci sono due aziende importanti che stanno facendo cose importanti sul software serio, sul software di base, in questo momento dovrebbero arrivarne altri 20 di italiani che fanno cose simili, perché in qualche modo un pochino diventi grande sulle spalle di qualcun altro, ma una qualche possibilità in più l’hai che la gente ti ascolti. Questa è la mia convinzione. Poi è vero, conta quello che fai, conta quello che dimostri.
Marco grazie mille, ci hai dato un sacco di tempo, mi ha fatto molto piacere parlare con te, e speriamo magari di rivederci quando vengo da quelle parti!

Marco: “Va bene! Grazie Massimo, ciao Irene!” 

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