Perché investire in italiani in Silicon Valley mi è sempre sembrata una buona idea
Ritorno alle origini della mia storia per farvi capire perché sono partito dagli italiani che incontravo a San Francisco e perché ancora oggi la considero un'ottima opportunità come VC.
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Italia e San Francisco sono legate tra loro in tanti modi. Ad esempio, Bank of America, che originariamente si chiamava Bank of Italy — lo sapevate?
Fondata da Amadeo Pietro Giannini nel 1904, nel 1906 fu la prima banca ad aiutare la ricostruzione di San Francisco dopo il terribile terremoto che la colpì quell’anno. Giannini era in realtà nato a San Jose, ma i suo genitori erano liguri — ancora oggi la comunità ligure è piuttosto diffusa in Bay Area.
Poi abbiamo la Ghirardelli Chocolate Company, fondata da Domenico Ghirardelli che nel 1849 emigra negli Stati Uniti d’America attratto dalla corsa all’oro. Ghirardelli invece di fare come ogni altro e scommettere sul metallo prezioso, intravede maggiori opportunità nel vendere badili, piccoli setacci e tende alla miriade di persone che in quel periodo si affacciavano in California. Tante erano le persone arrivate per la corsa all’oro che il porto di San Francisco divenne un vero e proprio cimitero di navi abbandonate:
Pochi anni dopo Ghirardelli passò dalle tende al cioccolato dopo aver perfezionato la sua ricetta. Questa nuova azienda lo rese per sempre parte della città e della storia americana.
Esistono anche tante storie più recenti che parlano di tecnologia il cui interesse per noi è sicuramente maggiore.
Lo sapevate che tra la fine degli anni ‘90 ed il 2010 circa grazie a Cisco oltre cento giovani ingegneri italiani si sono spostati in California?
Cisco non ha fatto avvenire tutto questo da sola, ma anche qui troviamo lo zampino di un team di italiani che dal 1993 si è fatto strada nell’azienda. Cisco all’epoca era indubbiamwnte il player più famoso nella netwoking industry; giudicate voi:
Ciò che invece pochi sanno è che tanti dei prodotti che resero famosa Cisco in tutto il mondo in quel periodo sono stati progettati da un team di nostri connazionali a Mountain View. Poi arrivò il crollo del Nasdaq, ma la vena di innovazione originata dai nostri continuò fino al 2013.
Gli italiani che hanno capitanato per oltre 2 decenni questa cordata di ingegneri italiani esperti di network communication si chiamano Mario Mazzola e Luca Cafiero. Nel 2016 i due sono usciti da Cisco, come raccontato nelle cronache di Roberto Bonzio e tanto per cambiare hanno lanciato un’altra startup, Pensando Systems.
Io ho avuto il piacere di conoscere bene un prezioso componente del loro team quando il gruppo era ancora riunito in Cisco, Silvano Gai. Questi, insieme alla moglie Antonella Caporello, ha avuto un ruolo importante in questa storia, che negli anni ha consentito a tanti italiani di talento di fare un’esperienza unica in California. Silvano era un professore del Politecnico di Torino che alla fine degli anni ‘90 decide di accettare un’offerta della società americana e si trasferisce in Bay Area. Lasciare un lavoro a tempo pieno come professore ordinario in Italia non è stata una scelta facile, ma le cose che si potevano fare sulla West Coast americana erano impensabili da noi.
Cisco in quegli anni era in fortissima crescita e servivano tanti talenti da assumere. È grazie a questo fatto e ai numerosi collegamenti con l’università piemontese che Silvano riesce a far assumere oltre cento ingegneri del Poli, facendoli entrare nei team di Cisco. Ragazzi a volte timidi, ma con una competenza tecnica che spiccava anche tra i talenti locali. Ma la parte del leone in questa storia l’ha fatta in realtà Antonella, la moglie, la quale, a seguito della migrazione di tanti giovani, si è trovata a fare un po’ da punto di riferimento a tutti i nuovi arrivati, i quali, dalla calma atmosfera torinese venivano catapultati nella frenetica Silicon Valley. La dedizione al lavoro non è mai stato il vero problema, perché arrivando da nostro Paese siamo abituati a lavorare duro e spesso fino a tarda ora, ma lo shock culturale e la diversità di abitudini quello sì si è presto dimostrato uno scoglio importante. La fatidica mancanza della cucina italiana veniva mitigata a casa Gai dove i tanti piatti italiani facevano sentire tutti un po’ più vicino alla loro amata Torino. L’esame della patente americana da passare poco dopo il trasferimento. La mancanza della famiglia. Tanti aneddoti di una vita da immigrati che, per una volta, non partivano con una valigia di cartone, ma con in tasca un contratto di assunzione in una delle più importanti società high-tech al mondo.
Io ho avuto il piacere di incrociare questa coppia di amici leggendo il libro Una 500 Rossa in Californa — che consiglio a tutti — nel quale Antonella ha condensato alcune delle storie di quei primi anni in California.
Per chi di voi volesse approfondire la storia di Silvano ed Antonella, questa intervista di qualche anno fa di Roberto Bonzio è sicuramente un buon punto di partenza:
Quando ho iniziato a viaggiare verso San Francisco non conoscevo queste vicende ed ero attirato sia dall’innovazione tecnologica, che dal fatto che mi sembrava l’unico posto al mondo dove potevi costruirti una carriera in base a quanto sapevi fare. Già questo la dice tutta!
Tra tutti, tre erano i punti di grande attrattiva per me:
Gli ingegneri erano i CEO delle loro aziende
La meritocrazia era il metro principale con il quale venivi valutato
Sul fronte dell’innovazione, avevo imparato più in 3 settimane a San Francisco che in 3 anni in Italia — non scherzo — e ho scoperto che tanti altri hanno fatto la stessa esperienza.
In Bay Area le startup riuscivo a vederle veramente e, ogni tanto, a viverle dall’interno. Nei miei viaggi, come ho già avuto modo di dire, ero particolarmente attratto dagli italiani che incontravo nella zona. Mi sembrava quasi che il meglio del nostro Paese fosse emigrato in Bay Area — poi nel tempo ho capito che non era proprio sempre così, ma alcune delle persone che ho conosciuto sono indubbiamente fuori dalla norma. Diciamo però che ho avuto modo di verificare quanto bene gli italiani possano fare con un sistema che funziona.
Più conoscevo nostri connazionali in California e più mi appariva chiaro che tanti tra loro avevano una marcia in più: avevano fatto un salto difficile, lasciare Paese e affetti, per cercare di cogliere un’opportunità. Erano risoluti, sicuramente più consci del loro valore professionale e la California aveva insegnato loro che competenza e duro lavoro possono portare a risultati eccezionali. Partivano scienziati e tecnici e dopo qualche anno si scoprivano imprenditori. In Italia trovavo più umanità, che in qualche modo risultava quantomeno attenuata in chi viveva per tanti anni negli USA. Lì, infatti, la competizione era sempre altissima e ci si poteva veramente trovare sopraffatti in pochi mesi dall’ultima azienda nata nella zona. Ma d’altro canto, trovare un nuovo impiego era questione di ore — non ho esperienze dirette in questo senso, ma diverse persone nel 2010-2012 mi dicevano che ricevevano 10-15 richieste la settimana solo su LinkedIn.
Arrivare a San Francisco è facile, bastano €700 e un ESTA. Riuscire a rimanere stabilmente nella zona è invece tutt’altra cosa. Quando trovavo un italiano che si stava cimentando nell’impresa, rimanevo sempre incuriosito e volevo capire su cosa stesse lavorando. Negli anni, ho osservato che gli italiani che incontravo in Bay Area erano tenaci e non mollavano facilmente. Erano intellettualmente molto vivaci e sempre impegnati nel creare le condizioni migliori che aiutassero il decollo del loro prodotto. Alcuni erano stati apparentemente fortunati, ma non credendo nella “fortuna”, la mia spiegazione era di tutt’altra natura.
“Perseverance”
… che io pronuncio sempre sbagliata 📣 (listen)
Questa era la parola che risuonava nella mia mente. Anni dopo ho trovato che non ero l’unico ad aver in testa questo concetto:
I'm convinced that about half of what separates successful entrepreneurs from the non-successful ones is pure perseverance. It is so hard. You pour so much of your life into this thing. There are such rough moments... that most people give up. I don't blame them. It's really tough.
—Steve Jobs
La qualità che più di ogni altra spiccava negli italiani che incontravo in Silicon Valley era la perseveranza. La spiegazione che mi sono dato nel tempo — e non è detto che sia quella corretta — è che in qualche modo come popolo veniamo temprati dall’esperienza che facciamo nel nostro paese nel quale il business è decisamente più “complesso” che negli USA. Non solo burocratico, ma in generale è più complicato far avvenire le cose, far sì che le stelle si allineino al punto giusto per chiudere un deal, un progetto, un avanzamento, ecc.
In Bay Area di solito le cose avvengono velocemente oppure non avvengono affatto e se non avviene il piano A, puoi subito ripartire e cercare di far avvenire il B. È in qualche modo parte della cultura della zona — non so bene se sia così in tutti gli USA. Le persone non cercano mai di forzare una situazione complicata e trovare una soluzione di solito raffazzonata — come far entrare un cubo in un contenitore sferico. Questo significa che a San Francisco se le condizioni al contorno non sono quelle giuste, nulla si muoverà fino a quando tali condizioni non cambieranno. Ecco perché è tanto importante capire le custom and practice della zona. Non serve avere una “raccomandazione” per aspirare ad una particolare posizione, come non serve per incontrare la persona giusta. Un endorsement forse sì può aiutare, ma è una cosa molto diversa — ne parleremo in futuro. Ciò che serve è tempo, perseveranza e tanto duro lavoro possibilmente in zona.
In qualche modo ho sempre avuto una grande ammirazione per chi, partendo dal nostro Paese, decidesse di uscire dalla propria comfort zone per misurarsi in un terreno complesso come quello di San Francisco. Mi chiedevo cosa li avesse spinti a fare il salto e perché così pochi italiani con la passione della tecnologia avessero il desiderio di esplorare queste zone.
La cosa che ho scoperto nel tempo è che diversi dei connazionali che incontravo a San Francisco erano in qualche modo out-of-sync con l’Italia. Non si uniformavano, viaggiavano ad una velocità diversa, aspiravano a cose diverse rispetto alla media delle persone della loro età e cultura nel Paese. Tanti di loro pensavano più in grande. Vediamo di dirla meglio:
Erano tutti persone che probabilmente in Italia non avrebbero concluso nulla di molto significativo. Proiettate invece in un ambiente che permetteva loro di esprimersi e dava più fiducia alla loro visione del mondo e delle cose, allora sbocciavano.
In qualche modo era una sofferenza trovarsi così a casa fuori dalla loro Italia, ma il dato di fatto è che quasi tutti quelli che ho incontrato che ce l’avevano fatta, non avrebbero potuto arrivare agli stessi risultati nella loro terra.
E con loro, attorno a loro, fiorivano tanti altri. Erano soggetti anch’essi che l’Italia “non capiva” perché non si uniformavano. Chissà perchè nel nostro Paese è così importante rientrare all’interno dello schema?
Ed ancora, erano attratti dal sogno americano, nel quale chiunque sia capace e caparbio, partendo dal basso, può arrivare ovunque. Erano però anche persone che invece di parlare, lasciavano che i fatti parlassero per loro.
Trovavo tanti ingegneri del software che sapevano fare una sola cosa veramente bene: immaginarsi un mondo diverso e scrivere codice per arrivarci prima. E se non erano programmatori, avevano sempre al loro fianco un partner che riusciva a tradurre in bit la loro visione. Dati, fatti, risultati, non marketing, e per me questa era una novità assoluta ed in qualche modo un eldorado.
San Francisco aveva, e ancora oggi conserva, questa capacità, di accogliere i misfit, coloro che non si uniformano. Li attrae e li trattiene; per alcuni di questi finisce bene, per altri male.
Non tutti gli italiani in Bay Area erano speciali. Molti erano validi professionisti che avevano colto un’opportunità nel corso della loro carriera. Niente di male, anche questi erano per me interessanti. Come avevano fatto? Che storia avranno? Tanto spesso incontravo dei italiani solo per farmi raccontare la loro storia: “Come sei arrivato a San Francisco?”
Io venivo indubbiamente attratto da chi aveva un sogno e rischiava un po’ di più degli altri per realizzarlo. Ed anche loro, a loro volta, trovavano in me un partner con cui potersi confrontare senza filtri perché parlavo la loro lingua, vedevo le cose che vedevano e mi entusiasmavo con loro ai piani che mi raccontavano. Non mi interessava se erano troppo giovani, anzi. Una persona di 20 anni dalla quale poter imparare era per me indubbiamente interessante. Lo stesso avveniva con chi ne aveva 67, 34 o 46.
Per anni mi sono chiesto come cambiare la situazione anche per chi rimane nel nostro Paese. Perché dobbiamo andare verso gli USA per poter far accadere le cose? Poi ho capito. Per cambiare le cose fin da subito dobbiamo essere connessi a doppia mandata con luoghi come Silicon Valley, conoscerne pregi e difetti e poi prendere il meglio di Italia e Stati Uniti ed agire. La conoscenza e la tecnologia ci rendono liberi, se usate nel modo giusto. Dieci anni fa era più complesso, ma oggi, grazie anche alla condizione forzata di remote work in cui tutto il mondo si è trovato, questo è facile da fare. Non tutti i talenti sono disposti a trasferirsi a 10.000 km di distanza a forse non avrebbe neppure troppo senso. Usiamo al meglio ciò che un’economia globale e connessa ci mette a disposizione.
Il Silicon Valley Dojo nasce proprio a questo scopo. La perseveranza e il duro lavoro faranno il resto. Noi cerchiamo solo di colmare il gap di conocenze che servono per iniziare a leggere e muoversi in autonomia in questo mondo.
Bellissimo Post 👍🏻
Bella storia...Crescendo Andiamo Insieme Nuova ....Pensando...la filastrocca di startup che fece grande Cisco....ed i giovani unicorn di oggi...chissa da oggi in poi !